Il racconto di Suor Daniela: dalla difficoltà può nascere una nuova forma di vicinanza, per aiutare davvero

#covid-19, #educazione, #educazione italia, #infanzia

La realtà degli ultimi mesi, caratterizzati dalla gestione dell’emergenza Covid-19, ha toccato da vicino tutti noi: le nostre abitudini sono cambiate, abbiamo dovuto adattarci a una nuova quotidianità. Così ha dovuto fare anche Suor Daniela, da tre anni volontaria dell’Associazione Talità Kum di Librino: con noi condivide le sue riflessioni su che cosa significhi stare vicino alle famiglie più in difficoltà in un contesto trasformato dalla pandemia.

 

Essere volontari in tempo di pandemia: una rivoluzione per restare vicini ai bambini e alle loro famiglie

“Nell’ordinario mi occupo dei bimbi del nido 0-3 anni e delle loro famiglie”, ci racconta Suor Daniela. “Una mia giornata tipo si svolge così: alle 7.30 esco di casa per andare in sede e preparare ambiente e materiali per i bimbi, perché prendersi cura di qualcuno comincia dall’accoglierlo in uno spazio bello. Alle 8.00 arrivano i primi bambini e per le 9.30 siamo al completo! Possiamo allora cominciare le nostre attività: giochi, storie, musica, attività motoria, laboratori creativi, merenda, cambi, gioco libero… tutto fino alle 14.00 e poi tutti a casa, per godersi mamma e papà!”

 

 

Tutto questo fino al 5 marzo 2020, quando la routine quotidiana, sia dei grandi che dei più piccoli, è completamente cambiata. “Dall’oggi al domani niente è stato più come prima” – riflette Suor Daniela, che si è subito chiesta: “che cosa possiamo fare per essere vicini ai nostri bimbi e alle loro famiglie? Mente e cuore si sono messi in movimento: abbiamo preso contatto telefonico con tutte le famiglie, per far sentire loro la nostra vicinanza e accogliere da loro bisogni e fatiche di questo momento. Ci siamo resi subito conto che i bisogni primari sono i primi da soddisfare.”

Come far fronte dunque a queste necessità? Rivoluzionando la propria quotidianità per i bambini più fragili e per le loro famiglie.

“Alle 7.30 esco di casa, destinazione: supermercato! Arrivo e mi trovo davanti una lunga fila di persone che aspettano, a debita distanza le une dalle altre. Prendo un carrello e anch’io mi metto in fila: nell’attesa, osservo le persone, penso a come le nostre abitudini siano state stravolte e faccio scorrere nella mente le immagini delle famiglie per cui mi accingo a fare la spesa. Finalmente arriva il mio turno e nel frattempo sono passate quasi due ore.”

 

La ricerca di una nuova normalità: attenzione, cura, prossimità

Dalle parole di Suor Daniela emergono l’attenzione e la cura affinché ciascuno, pur nelle avversità, abbia un solido punto di riferimento e non si senta lasciato solo nella ricerca di una nuova normalità: “inizio a fare la spesa come se fosse mia, perché in questo momento mi faccio carico di queste famiglie con la stessa cura che ho per me o forse anche di più.”

“Il carrello si riempie in fretta di prodotti per l’igiene come pannolini, salviettine e creme, ma anche di prodotti alimentari quali omogeneizzati, latte e biscotti, e vado quindi a recuperarne un secondo”, prosegue Suor Daniela. “Questa situazione d’emergenza ha secondo me accresciuto la sensibilità della gente, lo percepisco anche nella disponibilità dei commessi del supermercato nei miei riguardi. Mi accorgo degli sguardi stupiti degli altri clienti, che osservano il mio carrello stracolmo e forse pensano: quante bocche da sfamare! La mia lunga lista è finita, pago e carico tutto in auto.”

Una volta a casa, Suor Daniela prepara le borse da distribuire alle famiglie, le contatta e fissa con loro un appuntamento davanti all’asilo. “Ogni incontro per consegnare la spesa è particolare, un’emozione grande: incontrare queste persone, provate da questo difficile momento economico, ridotte a chiedere aiuto per poter dare da mangiare ai propri figli, gli occhi lucidi e stupiti davanti alle borse della spesa, gli infiniti grazie… sono immagini impresse nel mio cuore ed è difficile trovare parole che esprimano in profondità l’emozione di quei momenti. Confesso che in alcune occasioni, venendo via, non sono riuscita a trattenere le lacrime”, ci racconta commossa.

 

 

Per noi, e dico noi perché in questo servizio io sono stata lo strumento concreto, ma col cuore c’erano tutti gli operatori dell’associazione, non è semplicemente donare la spesa: è farci carico in pienezza di queste famiglie attraverso la nostra prossimità.

Forse non torneremo a breve alle nostre quotidiane abitudini, ma, come afferma in conclusione Suor Daniela, “la nostra carità creativa ci fa sperimentare nuove forme di vicinanza, fa nascere relazioni nuove e ci dà la possibilità di fare di questa difficoltà un’opportunità per aiutare davvero.

E anche tu, insieme a noi, puoi dare una mano a tante famiglie in difficoltà in questo momento di emergenza, per restare davvero #viciniaibambini.

La Giornata Mondiale dell’Infermiere: il racconto di chi resta sempre umano, sempre dedito alla vita

#covid-19, #cuore di bimbi, #medici volontari

Il 12 maggio è la Giornata Mondiale dell’Infermiere e mai come quest’anno sentiamo il bisogno di celebrarla, insieme ai volontari del nostro programma Cuore di Bimbi: per ringraziare chi continua ad aiutarci a superare la difficile sfida contro il Covid-19, ma anche per raccontare, attraverso le parole di chi l’ha vissuta in prima linea, un’esperienza che ci ha profondamente cambiato.

 

Facciamo tesoro di questa esperienza, altrimenti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. Alessandro Crespi, infermiere volontario Cuore di Bimbi dal 2015

“Dire che cosa abbia significato vivere l’emergenza Covid-19 dal nostro punto di vista è un po’ difficile. L’impatto è stato fortissimo, inaspettato, devastante.

Gli echi (inascoltati), che giungevano da Oriente, ci hanno mostrato vulnerabili e impreparati. Però, non senza una bella dose di disorganizzazione, abbiamo tutti accettato la sfida e cominciato a fare la nostra parte, ognuno al meglio delle proprie capacità.

La pandemia ha agito un po’ da “livella”, come avrebbe saggiamente detto Totò: ha ridimensionato le priorità, mostrato la pochezza di ciò che fino ad allora avevamo percepito tutti come necessità. Ahimè, ha anche distolto l’attenzione dai problemi veri, rendendoli minimi, trascurabili: tutto il nostro lavoro, fatto fino a quel punto, è improvvisamente diventato procrastinabile. Vallo però a raccontare ai genitori dei bimbi con patologie congenite.

Noi nel frattempo ci siamo organizzati e barricati nei nostri fortini, i più fortunati nei castelli, con tanto di mura, torrioni e ponti levatoi; vestiti di armature e armati fino ai denti, abbiamo iniziato a combattere, a tentare di salvare tutti i feriti.

Non è stato facile.

Non lo è stato mai, anche prima.

Ma questa volta di più.

Lentamente il Covid-19 pare aver mollato la presa.

Tregua? Quanto durerà?

Noi usciamo lentamente dai nostri posti di combattimento certamente cambiati, consapevoli di saper fare squadra quando serve, percepiti un po’ meglio da chi ci ha visto lottare in prima linea, più forti di prima.

Spero solo che l’esperienza, paradossalmente meravigliosa, di vivere insieme tra le mura di un ospedale, di una rianimazione, ma anche di una casa, non vada gettata. Facciamone tutti tesoro, altrimenti, citando Blade Runner, Tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia.”

 

L’infermiere è là in trincea, in prima linea. Cinico quando serve, umano sempre, con forza-coraggio-amore. Maurizio Biella, infermiere volontario Cuore di Bimbi dal 2017

“Ognuno di noi esprime riflessioni in generale o dedicate alla propria realtà. Io non ne sono esente ed è giusto così.

Quotidianamente nelle nostre mani vengono messe delle vite. La responsabilità è grande, ma ciò non ci spaventa, anzi: le nostre mani aiutano il risveglio, il ritorno alla vita. Perciò voglio partire a ritroso, come si fa con la storia, che è poi lo spirito del nostro lavoro di ogni giorno.

Da anni mi occupo dei bambini cardiopatici. Quando ti lasci plasmare dalla fiamma della passione e della solidarietà, il tuo cuore abita nel mondo. E così, quando sei in terra straniera, ti accorgi di non essere uno straniero.

Il ritorno al sorriso di questi bambini, che è poi il sorriso che contraddistingue i bambini di ogni nazione, è il regalo più grande che possiamo ricevere. Chiara ci appare la loro storia meravigliosa, nella quale risiede la speranza di un nuovo futuro. Ed è una grande gioia vederli sorridere, correre e crescere. Siamo strumenti e testimoni del valore della vita.

È in questo scenario che si colloca il mio essere infermiere.

Un ruolo importante lo svolgono, con immensa dignità, le mamme dei bambini cardiopatici: sono loro che determinano lo scandire del nostro impegno attraverso l’espressione della speranza, della fiducia e della gratitudine, di cui abbiamo bisogno per continuare. Ci affidano la vita dei loro bambini: di fronte a questo immenso Amore il nostro cuore batte forte, nella consapevolezza che la vita è un valore incalcolabile.

Si tratta di bambini che, dopo aver perso tante battaglie, hanno vinto la loro guerra. Il riscatto è grande: riprendersi la vita.

Sì, perché noi ci tuffiamo nei loro cuori.

Ecco chi è l’infermiere: una persona che ha passione, coraggio, che si impegna, fa sacrifici, sostenuto nella propria professione da attitudini personali.

Infine, quando i tempi saranno finiti, l’uomo avrà scritto la sua storia anche nei cuori rattoppati di tanti bambini inviati dal cielo, testimoni nella quotidianità.

Poi arriva lui: il Covid-19.
Un mondo piegato sulle ginocchia. È forte, è agguerrito.
Confusione, teorie e riflessioni più o meno strampalate.
È il momento di rimboccarsi le maniche: il personale sanitario scende in campo, con o senza dispositivi di sicurezza individuali. Morti: tanti, troppi.
L’infermiere è là, in trincea, in prima linea. Cinico quando serve, umano sempre.

La sua divisa puzza. No, non puzza affatto. La scia che lascia parla di fedeltà alla professione; di dedizione alla vita, che protegge fino allo stremo; di capacità di accompagnare alla morte la persona che sta curando.
Ancora poi, in un angolino angusto, si rannicchia in solitudine, per poter lasciare… e preziose lacrime solcano il suo viso.
E ancora, con forza coraggio amore, riappare sulla scena per nuove primavere.”

 

Non scorderò mai i forti legami con i nostri pazienti: eravamo diventati in un certo senso il loro punto di riferimento, la loro famiglia. Ecaterina Baciu, infermiera volontaria Cuore di Bimbi dal 2016

Da questa esperienza mi porterò per sempre dei momenti che non avrei mai voluto vivere, malgrado fossi consapevole dei rischi del nostro mestiere.

Non scorderò mai: gli sguardi impauriti dei pazienti, vedendoci comparire ricoperti con tutti i dispositivi; i nostri occhi pieni di lacrime, quando li vedevamo; i sorrisi durante le videochiamate con i loro cari; la ricerca della loro mano verso una carezza o il semplice contatto o il saluto, con la promessa di rivederci il giorno dopo. E purtroppo non scorderò mai quando, nonostante tutto il nostro impegno, non riuscivano a superare i momenti difficili.

Essendosi venuti a creare dei forti legami con i pazienti, eravamo diventati in un certo senso il loro punto di riferimento, la loro famiglia.

Le esperienze vissute durante le missioni organizzate dalla vostra Fondazione mi sembrano adesso dei ricordi molto lontani.

Confido nella ricerca per poter trovare la giusta cura contro questo mostro e per poter ritornare dai piccoli pazienti cardiopatici, che hanno tanto bisogno del nostro aiuto per poter guarire.”

Ci sono storie che ci permettono di viaggiare in luoghi lontani e di conoscere nuove realtà. A volte, però, queste realtà non sono come ce le immaginiamo: è questo il caso delle bambine e delle donne di Paraìba, che vivono all’interno della loro comunità una situazione di emarginazione, vulnerabilità sociale e povertà. È Raffaella Fuso, nostra volontaria da oltre dieci anni, a portarci con lei in Brasile e a farci conoscere più da vicino questa difficile situazione. Lo fa a partire dalla sua visita al centro comunitario “Casa dos Sonhos”, creato da una comunità di Suore Domenicane con l’aiuto della nostra Fondazione e situato a circa 20 km dalla capitale Joao Pessoa, precisamente nel punto finale della cittadina di Santa Rita.

 

Una dura realtà, tra povertà e violenza

Il centro può essere considerato un’oasi felice: con l’obiettivo di accogliere e sostenere bambini, ragazzi, donne e famiglie della comunità che vivono una situazione problematica, offre programmi e attività di prevenzione, assistenza, formazione ed educazione basati sulla solidarietà, la giustizia e la valorizzazione della persona e dell’ambiente che la circonda.

Purtroppo la situazione cambia completamente non appena si esce al suo esterno.
Come ci racconta Raffaella, “le periferie si trovano fuori controllo e la quasi totale assenza dello Stato – che significa fra le altre cose assenza di diritti, servizi e sicurezza – sta portando sempre più persone oltre la soglia della povertà estrema, costringendo uomini, donne e bambini a mendicare o a raccogliere materiale da riciclare per poter sopravvivere. Nella maggior parte di queste famiglie la madre è di fatto l’unica fonte di sostegno di diversi figli e il piccolo contributo, denominato Bolsa Familia, è l’unica entrata economica certa rispetto ai pochi lavori irregolari e saltuari che si possono trovare.”

 

Foto di Raffaella Fuso

 

La violenza è sicuramente uno degli aspetti più preoccupanti che contraddistingue le periferie brasiliane e che Raffaella ha potuto vedere da vicino: “parliamo di violenza domestica sulle donne e i bambini, di violenza sociale legata alle devianze e alla povertà educativa e soprattutto della violenza delle organizzazioni criminali contrapposta a quella della polizia, che ogni giorno uccide quasi indiscriminatamente decine di persone. Le vittime di tutto questo restano uomini, donne e bambini costretti a vivere in un clima continuo di precarietà e paura.”

In un contesto difficile come quello appena descritto, dove l’emarginazione sociale si unisce alla violenza e alla mancanza di opportunità, c’è un altro aspetto ancora più difficile da accettare, presente ancora in molti Paesi del mondo e di cui la nostra volontaria si fa testimone: le bambine, se possibile, vivono condizionamenti ancora più forti. Responsabilizzate fin da piccole ad accudire i fratellini minori e vittime di una cultura a cui non interessa vederle studiare e realizzarsi in qualcosa che vada oltre il futuro ruolo di moglie e madre, si trovano destinate a un futuro già scritto. L’alto numero di violenze domestiche, matrimoni e maternità precoci e, non ultimo, il numero di femminicidi non fanno altro che confermare questa forte discriminazione di genere.

 

La “Casa dei Sogni”: un’oasi di pace e speranza

Nel contesto in cui è inserita, la “Casa dos Sonhos” rappresenta dunque l’unico punto di riferimento valido in grado di garantire i principali diritti e curare l’educazione, la salute e la sicurezza degli oltre 130 minori accolti, offrendo loro un’assistenza affettiva e sociale in grado di contrastare violenza, povertà e pregiudizio.

 

Foto di Raffaella Fuso

 

La “Casa dos Sonhos” è uno spazio in cui i bambini e gli adolescenti, seguiti da una preparata e variegata equipe di professionisti e volontari, possono mangiare, imparare, giocare, sognare e trovare un po’ di serenità rispetto al duro contesto in cui sono immersi quotidianamente. Raffaella può testimoniare quanto il Centro sia “un luogo che favorisce momenti di condivisione, di riflessione, di dialogo e di crescita verso la costruzione di una identità e di un futuro migliore – per i bambini e gli adolescenti accolti e per la comunità in cui vivono.”

Fondato nel 2004, il centro è oggi una realtà molto radicata nel territorio, esempio concreto e positivo di come l’educazione, l’integrazione e la creazione di una cultura di pace e rispetto possano nascere e svilupparsi, cambiando profondamente la qualità e le prospettive di vita di molte persone.

“Senza la presenza della “Casa dos Sonhos” – spiega Raffaella – tutti i bambini e gli adolescenti avrebbero trascorso il tempo per strada, potenziali vittime di droga, alcolismo, prostituzione e violenza. Tra le mura del centro, i minori trovano punti di riferimento sani, regole e limiti che li orientano, per evitare che il contesto e i cattivi comportamenti li conducano alla marginalizzazione.”

Il nostro aiuto, fornito attraverso i progetti ‘Una Casa dei Sogni contro la marginalizzazione’ e ‘Borse rosa per le ragazze di Santa Rita’ risulta fondamentale per il proseguimento delle attività del centro e il benessere di tutte le persone coinvolte.

 

L’empowerment femminile: un sogno che diventa pian piano realtà

È grazie al programma di Empowerment femminile che nel 2019 dodici ragazze e otto madri della comunità hanno potuto frequentare due corsi professionalizzanti per diventare “Grafici” e “Amministratore di cassa”. Sempre nell’ambito di questo progetto, alcune ragazze sono state coinvolte come volontarie nel centro e forniscono supporto alle diverse attività che vengono svolte giornalmente. La “Casa dos Sonhos” si conferma dunque essere un punto di riferimento per le famiglie e le madri della comunità, che qui possono trovare aiuto e assistenza in relazione alle numerose difficoltà incontrate ogni giorno.

“Questo il cambiamento che vorremmo vedere nel Mondo – conclude Raffaella. Un cambiamento volto alla creazione di una cultura di pace, integrazione, solidarietà reciproca, rispetto della natura e lotta contro il ciclo di violenza domestica e comunitaria. Questo è l’aspetto più difficile del lavoro del centro e il suo valore aggiunto: formare coscienze responsabili e insegnare il concetto di eguaglianza.”

 

Foto di Raffaella Fuso

 

Far battere un cuore: una responsabilità che riguarda tutti

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“Certe esperienze sono così intense ed emozionanti che l’ostacolo più grande potrebbe essere quello di non riuscire a trovare le parole giuste per descriverle – parole che diano onore a ciò che ho visto e provato.”

Eppure Veronica Ruzzon, nostra volontaria da un paio di anni, quelle parole le ha prima cercate e poi trovate, tale e tanto forte era la voglia di raccontare la missione in Zambia a cui ha partecipato nel 2018 e insieme di ringraziare le persone incontrate, con cui ha condiviso quella che definisce l’esperienza più bella della vita.

 

Partire per una parte del mondo diversa, dove nulla è scontato

Veronica è partita a novembre insieme ai medici volontari del programma Cuore di Bimbi:

“persone straordinarie capaci di lasciare la propria famiglia, moglie e figli, per portare vita e speranza in posti del mondo dove non si ha possibilità di scegliere quasi nulla.”

Parti del mondo in cui tutto ciò che noi diamo per scontato, come la disponibilità di acqua e corrente, non lo è più. E in cui proprio per questo, alla fine, delle scelte importanti devono essere compiute, con etica, professionalità, nel rispetto del contesto e degli equilibri già presenti. Al gruppo di medici volontari arrivati in Zambia è bastato meno di un giorno per capirlo.

“In ospedale, già in tarda mattinata, l’acqua non c’era più: venivano preparati dei bidoni per tamponare la situazione. E così anche l’atto più semplice del lavarsi le mani, quando diventava possibile, assumeva un connotato quasi mistico. La corrente è saltata sia durante un’operazione a cuore aperto sia durante la notte successiva, quando i bambini erano intubati.”

È stato proprio in sala operatoria, senza corrente, senza un generatore a supporto, senza l’apparecchiatura necessaria a monitorare lo stato fisico di un bambino che stava subendo un intervento al cuore, che Veronica ha capito: salvare una vita esige di saper andare oltre.

“Io non so se tutto questo ha un senso, so solo che in quei momenti, quando la tecnologia che dovrebbe supportarti viene meno, puoi fare affidamento solo su te stesso e sulle persone che ti stanno accanto. La cosa che mi ha colpito è il fatto che il personale sanitario ha continuato a lavorare come se nulla fosse: senza battere ciglio, senza titubare, senza lamentarsi.”

 

Vedere un cuore che ricomincia a battere. E oltre.

Durante la missione sono tante le cose a cui si cerca di dare un senso, ma, quando si vedono dei bambini innocenti soffrire, diventa forte la sensazione di essere da un lato impotenti, dall’altro un po’ responsabili rispetto a quanto succede nei Paesi più poveri del mondo.

“Inizi a ragionare in modo diverso: ti chiedi che cosa hai fatto fino a oggi per mettere a disposizione dei bambini, di tutti i bambini, un mondo migliore. Anche se vivi a chilometri di distanza, quello che succede in Zambia è come se succedesse qui, perché il mondo è uno solo, quindi siamo tutti responsabili. Se il bambino ha una malformazione congenita al cuore, è colpa della natura che non ha fatto il suo dovere. Se però questo bambino non può essere operato, per qualsiasi ragione non imputabile al suo stato fisico, c’è un problema.”

Le operazioni eseguite dai medici volontari del programma Cuore di Bimbi sono di due tipi: “a cuore aperto” e di emodinamica. Il loro lavoro però va oltre l’operazione al cuore: accompagnano i bambini cardiopatici e le loro famiglie anche nelle fasi pre e post operatorie e formano il personale sanitario locale, per renderlo il più possibile autonomo nel trattamento delle cardiopatie infantili.

Allo stesso modo l’esperienza di Veronica ha comportato assistere alle operazioni, ma anche molto altro.

“Si è trattato di passare del tempo con i bambini prima che fossero sottoposti all’intervento, stare con le loro famiglie, assistere il personale sanitario nella fase preparatoria. Essere in sala operatoria a pochi centimetri da loro e alla fine vedere i loro cuori stare meglio e ricominciare a battere. E poi ancora vivere la tensione del postoperatorio, quando il corpo del bimbo deve riprendere la sua normale funzionalità, quando le famiglie ti corrono incontro per sapere come stanno i loro bambini e tu non puoi dire né fare nulla, in quanto non ne hai la qualifica. E quando i bambini si svegliano in stato confusionale: alcuni piangono per il dolore, altri perché la mamma non è lì con loro.”

È anche guadagnarsi la fiducia di bambini che non capiscono esattamente che cosa stia succedendo e che cosa debbano affrontare, ma che sono stanchi di vedere ospedali e medici e di non stare bene.

 

Tutti possiamo fare la differenza, a partire da un palloncino

Il personale sanitario è senza dubbio fondamentale nelle missioni del programma Cuore di Bimbi: i medici volontari sono il punto di collegamento tra la scienza e la vita. Eppure, nel nostro piccolo, siamo tutti utili, sempre e dovunque. E anche un palloncino donato può fare la differenza.

“È straordinario il fatto che un palloncino abbia cambiato l’umore di una bambina, che con maggiore serenità ha affrontato la visita cardiologica, e di conseguenza anche quello della sua mamma, che, con un sospiro di sollievo, per una volta non ha visto la figlia piangere. È la dimostrazione che siamo tutti connessi e che l’obiettivo non viene raggiunto dal singolo, ma dall’unione delle volontà e dei gesti di ognuno di noi. Gesti che, seppur piccoli, creano un concatenarsi di eventi positivi.”

 

Quello che resta e quello che ancora deve continuare

Al termine della missione Veronica ha portato con sé lo sguardo, il nome, le storie dei bambini che ha incontrato.

“Credo che sia giusto raccontare che grazie a questo progetto moltissimi bambini ce l’hanno fatta e oggi hanno un cuore sano. Credo che sia giusto raccontare anche di un bimbo di dieci giorni, notato da una neonatologa della missione: la sua operazione non era in programma, ma, girando in reparto, la dottoressa ha individuato il suo stato critico e lo ha portato in sala operatoria.”

Tanti altri bambini con il cuore malato aspettano il nostro aiuto per essere operati. Veronica lo sa, lo ha visto, ed è per questo che la sua esperienza è solo all’inizio e – come ci ha raccontato – deve continuare. Esattamente come la nostra.